Arto alieno e unitarietà del
soggetto
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 16 marzo
2019.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del testo: DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO]
Le storiche e drammatiche immagini
di una mano che distrugge ciò che sta costruendo l’altra, in pazienti con cervello diviso per terapia chirurgica di
epilessia intrattabile, rappresentano la memoria visiva più convincente della
scoperta che l’unitarietà intenzionale del soggetto espressa attraverso le
azioni è conseguenza di un processo di integrazione
globale e sintesi, costantemente attivo nella fisiologia cerebrale. La
nostra scuola neuroscientifica ha promosso la conoscenza degli studi che hanno
portato a comprendere l’errore - costante nel passato, ma ancora radicato - di considerare
ciascuna facoltà psichica come “un
intero” dovuto all’attività di una base neurale circoscritta, non comprendendo
che si tratta di astrazioni concettuali (intenzione, volontà, libero arbitrio,
ecc.) prodotte dall’esperienza umana e dalla cultura umanistica del soggetto,
la cui base neurale è da ricercarsi nelle sintesi funzionali di molteplici
componenti attive nella complessità del nostro encefalo.
Tanto premesso, si affronta oggi la
discussione sorta a proposito della sindrome
dell’arto alieno, così come è stata proposta da Bahar
Gholipour[1], prendendo le mosse dalle osservazioni condotte da Ryan Darby, Assistant
Professor di Neurologia presso la Vanderbilt University.
In questa sindrome, poco frequente e
in genere causata da ictus o forme meno gravi di vasculopatia
cerebrale acuta, l’estremità di un arto, e più spesso una mano, sembra agire
indipendentemente dalla volontà del soggetto, con l’esecuzione di atti
finalizzati che prescindono dallo stato motorio dell’altra mano o in contrasto
con essa. Può accadere che, mentre una persona affetta dalla sindrome si
sbottona la camicia con una mano, con l’altra afferri i bottoni per introdurli
di nuovo nelle asole. La motricità indipendente può apparire incoercibile, al
punto che talvolta i pazienti afferrano e tengono ferma la mano ribelle con
quella integra, o giungono a sedersi sulla mano “aliena”, per impedirle
movimenti imprevisti e incongrui.
Darby osserva che tali pazienti sembrano aver perso quella sensazione di
autonomia nell’agire, detta in inglese sense of agency,
ossia quel senso di autodeterminazione e unitarietà del soggetto delle intenzioni e
della volontà che costituisce il
fondamento soggettivo della fisiologia dell’Io. Ma, seguendo il neurologo della
Vandebilt, Gholipour nota
che i pazienti sembrano aver perso la sensazione di “avere la proprietà delle
proprie azioni… un’importante componente del libero arbitrio”[2].
La questione rimanda ai problemi
sollevati dalle lesioni localizzate che costituiscono l’oggetto storico
elettivo della neuropsicologia: un danno corticale che includa l’area di Wernicke, ad esempio, determina difficoltà nella
comprensione della parola udita. È evidente che viene a mancare il sostrato
neurale per l’elaborazione cognitiva della codificazione linguistica ascoltata,
e nessuno al giorno d’oggi dubiterebbe dell’intelligenza della persona. Solo chi
non conosce l’origine anatomo-clinica focale del disturbo, ad un’osservazione
superficiale, potrebbe essere tratto in inganno e giudicare dal sintomo le
facoltà intellettive della persona. Ora, non si vede perché non si debba
procedere allo stesso modo nel caso in cui si sa che un arto è patologicamente
svincolato dal controllo unitario, e mettere in discussione la facoltà astratta
e generale del libero arbitrio.
Altrove abbiamo discusso la deriva determinista
del riduzionismo biologico che tende a considerare il libero arbitrio non come
una facoltà di scelta morale, secondo il corretto significato che questa
espressione ha avuto in secoli di filosofia e pensiero religioso, ma come la
possibilità di un arbitrio del momento operato solo sulla base
dell’informazione istantanea. Scoprire che il cervello tende ad adoperare
schemi abituali di risposta memorizzati in precedenza, attivandoli prima
dell’elaborazione cosciente della risposta ad una banale scelta percettiva,
induce tali ricercatori a dedurre che non esista il libero arbitrio. Il
risultato di questi esperimenti, che riporta agli studi pionieristici di
Benjamin Libet per l’identificazione del circuito
percorso dagli stimoli che raggiungono la coscienza, non fa altro che
confermare principi ben noti della neurofisiologia della cognizione, come l’inferenza cognitiva e la modifica in esecuzione – se necessaria –
del piano di risposta allo stimolo, con una lunga e consolidata storia
sperimentale.
Anche se le manifestazioni cliniche
dei pazienti colpiti da sindrome dell’arto
alieno sono le stesse, la sede cerebrale della lesione è differente da un
caso all’altro. La spiegazione di questo referto sembra essere nella
possibilità di lesione in punti diversi di una stessa rete che assicura – secondo noi – il controllo mediante integrazione degli schemi locali nella funzione
globale.
Ryan Darby
e colleghi hanno indagato la possibilità effettiva di riconoscere un unico sistema
neuronico disposto a coprire la topografia lesionale, analizzando tutti i dati
ottenuti dagli studi di neuroimmagine del cervello delle persone colpite[3]. A tale studio, hanno accostato anche un’indagine sulla base
neuroanatomica del mutismo acinetico,
un disturbo in cui i pazienti appaiono privi di intenzione e motivazione a
parlare o a muoversi, pur non avendo alcun impedimento fisico riconoscibile.
Usando una nuova tecnica, i
ricercatori hanno potuto valutare la localizzazione delle lesioni accostandole
ad un modello di reti cerebrali, costruito
sulla base dell’attivazione contemporanea statisticamente significativa di più
aree in rapporto ad un’attività o compito.
I risultati hanno fatto rilevare che
tutte le lesioni associate alla sindrome dell’arto alieno potevano essere mappate all’interno di una rete di aree
connesse con la regione del precuneo, una sede di sistemi neuronici in precedenza
associati alla consapevolezza di sé e
all’autodeterminazione.
Un esito morfologico ben diverso ha
mostrato l’accostamento al modello delle lesioni associate al mutismo acinetico: la loro
localizzazione corrispondeva ad una rete centrata sulla corteccia anteriore del giro del cingolo, cui si attribuisce un
ruolo nelle azioni volontarie.
L’aspetto sottolineato da Ryan Darby e colleghi è che queste due reti neuroniche includono
regioni cerebrali che hanno rivelato in studi precedenti, quando stimolate
mediante elettrodi, una partecipazione alla funzione di libero arbitrio, perché
tale facoltà sembrava alterata nella percezione soggettiva dei volontari
sottoposti a stimolazione. I ricercatori hanno riportato i dati e la loro
interpretazione su Proceedings of the National Academy of Sciences USA nel mese di ottobre, e da allora si sono
sviluppate discussioni, riflessioni e dibattiti.
Intanto, si deve sottolineare che
alcuni studiosi di riferimento della comunità neuroscientifica internazionale
sono ancora su posizioni teoriche che giustificano la ricerca di localizzazioni
cerebrali circoscritte di facoltà di alto livello, come il libero arbitrio,
nell’ambito delle “funzioni superiori” del sistema nervoso centrale. A tali
interpreti di un pensiero che, se non temessimo l’uso di una terminologia
divenuta dispregiativa definiremmo “neofrenologico”,
si può far notare che, secondo quanto emerso da questo studio, almeno due componenti
del libero arbitrio, come viene correntemente concepito nelle scienze
sperimentali, ossia la volizione e l’autonomia motoria, non sono localizzate in nessuna area o regione cerebrale
particolare, ma sembrano dipendere ciascuna da una rete di sistemi neuronici.
Sul valore del metodo e dei
risultati di questo studio è intervenuto Amit Etkin,
professore associato di psichiatria alla Stanford University:
“Questo è un modo creativo di usare dati che erano a disposizione da decadi e riconcettualizzarli per apprendere qualcosa di
effettivamente nuovo e dare senso a cose che non avevano senso prima”[4].
Per quanto ci riguarda, questa
prospettiva è un primo passo verso la direzione che auspichiamo da tempo,
ispirata alla concezione espressa in sintesi all’inizio di questo scritto.
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione
della bozza e invita alla
lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono
nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella
pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-16 marzo 2019
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data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione
scientifica e culturale non-profit.
[1] Gholipour
B., Vanishing Free Will. Scientific
American 320, 1: 11, 2019.
[2] Gholipour B., op. cit., p. 11 (traduzione dell’autore).
[3] Mediante la rassegna di tutti i lavori originali di osservazione sperimentale registrati nelle principali basi internazionali di raccolta della pubblicistica medico-scientifica.
[4] Cfr. Gholipour B., op. cit., p. 11 (traduzione dell’autore).